Il fascino del ruscello


di Roberto Barbaresi

Nell’immaginaria visione di ambienti paradisiaci vi è spesso associato un ruscello immerso nel bosco, rappresentazione di natura incontaminata, le cui linfe cristalline si rincorrono allegre, per poi prodursi in rumorose cascatelle e imbiancarsi di schiume. Simili contesti suscitano tranquillità e pace interiore e, nello stesso tempo, scatenano fantasie e voglia di avventura a chiunque ami stare all’aria aperta. Se poi questi individui sono anche pescatori, ecco che si idealizzano guizzanti trote profumate di muschio, sovrane incontrastate delle acque pure e fresche.

L’appassionato di pesca e natura cerca questi piccoli eden con lunghe camminate esplorative, armato di carte e bussola, inoltrandosi temerario nelle valli più recondite. Fatiche ampiamente ripagate dall’autenticità di microambienti acquatici di vergine parvenza, talmente esigui da sembrare irreali, che a tratti scompaiono rimanendo isolati dal resto del mondo. L’atto di catturare una bella trota, una vera regina del rivo sconosciuto, diventa solo la fase culminante di una lunga preparazione, mentale e fisica. Perché prima di tutto bisogna convincersi che simili luoghi esistono, poi, una volta raggiunti, occorre infondersi il coraggio necessario per non lasciare nulla di intentato.

LA PESCA
Nell’intimità del ruscello il pescatore si muove come un’animale in caccia, sempre chino e guardingo, attento a scrutare lo scorrere dell’acqua alla ricerca di quell’angusto spazio dove fosse possibile immergere la lenza senza essere visti. Per riuscirci deve prodursi in ardite contorsioni e bambineschi atteggiamenti come se giocasse a nascondino, tanto scaltre sono le amate pinnute, per non essere preceduti dal loro scatto fuggente verso il sicuro rifugio. Non ha altra scelta. Nei piccoli corsi d’acqua le trote sono continuamente affamate, pronte a ghermire i ghiotti bocconi, ma sono enormemente difese dalla loro spiccata percezione del pericolo. Quell’ancestrale paura di tutto ciò che si muove sulle sponde come se, prima della venuta dell’uomo pescatore, avessero incontrato chissà quali terribili predatori.

Gli antesignani pescavano al tocco, con canne di bambù, fisse o a pezzi da montare sul posto. Lenza composta da uno spezzone di monofilo, un piombo, un amo, per esca un verme raccolto nel letamaio o una larva rinvenuta tra i ciottoli umidi. Tutto era approntato in grossolana maniera, ma quegli uomini rudi, anziani e temprati valligiani, lo rendevano tremendamente efficace. Puntavano innanzitutto sulla furbizia, dote affinata da una vita passata nel bosco a predare, attendendo saggiamente il momento giusto per ingannare l’animale più grosso e astuto. I nostri tempi trascorrono velocemente, ma la natura, scandita da ere millenarie, è rimasta immutata. Il moderno pescatore può equipaggiarsi di tutto ciò che desidera, ma che potrebbe non servire, in certi ambienti e con certe trote selvatiche, che se ne fregano dell’umano progresso.

E’ più importante sviluppare i criteri di osservazione, climatica e ambientale, tantopiù curare mimetismo e accortezza. Perché alla fine basta una comune canna telescopica di 3-4 metri, meglio se munita di qualche blocco di teleregolazione per accorciarla il più possibile nelle situazioni più infrascate. Un piccolo mulinello caricato con poche decine di metri di robusto monofilo. Una lenza risicata all’osso, qualche pallino o una leggera spiralina, corredata con un finale di 15-20 centimetri. Il verme, innescato sul grosso amo, si infila con abilità ovunque si intraveda acqua tra grovigli di rovi, appoggiato nei rivoletti tra i sassi dove di nascosto intuiamo la buchetta, lasciato scorrere fin sotto la radice sommersa che spezza l’esigua corrente. Muoversi e pescare in certi ambienti è davvero estenuante, spazio e tempo trascorrono senza avvertire alcunchè, forse era solo un’illusione, tanta fatica per nulla.

Ma dopo innumerevoli inciampi, scivoloni, appigli della lenza, ecco che succede qualcosa. Un’ombra sfuggente si intravede nella buchetta, sorprendendo lo stanco pescatore che dopo ore di risalita vedeva il sogno svanire. Invece è tutto vero. Il cimino si agita nervoso trasmettendo incredulo sentore che nel ruscello c’è vita. Parte la ferrata, secca e immediata, l’inganno è riuscito ma rimane l’atto finale della predazione, la cattura dell’animale. Nulla è ancora scontato. La sagoma che si intravede si dibatte con foga inaudita, una forza sbalorditiva la anima, roteandola in acqua e fuori. E’ la disperata reazione del predatore che, per la prima volta, si sente predato. Ora ha esaurito le energie, giace inerme in tutta la sua possente bellezza e possiamo deciderne il destino, con la consapevolezza di chi non ha più bisogno di pescare per vivere, ma desidera soltanto provare arcaici rapporti tra uomo e natura.

L’ETICA
Finalmente si capisce che simili emozioni vanno vissute senza fini di carniere, per non infierire nei confronti di ridotte comunità che tanto faticosamente si mantengono. E il sogno continua. Immaginando quel rigagnolo sperduto tra le montagne, d’insignificante valore alieutico e geografico tanto da non essere nemmeno menzionato, popolato da relitti di grande valore naturalistico, oppure altrettanto importanti retaggi di antiche semine, perfettamente integrati nell’esiguità di certi ambienti. Pochi individui che riescono miracolosamente a perpetuarsi, rimasti confinati dalla discontinuità idrica e morfologica di quell’angolo di paradiso.

Chi scopre questi luoghi fa bene a custodirne gelosamente i segreti, guai se qualche scriteriato si accorga delle creature che lo abitano, giungendo a bracconarli senza pietà. Conviene visitarli di nascosto, soltanto una o due volte l’anno, per l’unica soddisfazione di vedere che le trote ci sono ancora. Godendo della credenza di essere l’unico che le infastidisce, che ha forza e coraggio necessari per raggiungerle fin li e poterne ammirare la bellezza. Trattenere una trota per gustarla sulla tavola, alla fine di simili fatiche, provoca sensazioni di primitivo sostentamento. Ma ciò non deve assolutamente diventare un’abitudine, pena inevitabile rimorso per tanta ingiustificata avidità. La natura ce ne sarà riconoscente.

Pubblicato su www.pescareonline.it – Gennaio 2007